venerdì 11 maggio 2012

intervista a Colette Kitoga Habanawema 
dottoressa e psicoterapeuta, premio Unicef 2006 
di Roberto Carvelli 
e Marina Marrazzi 
Suoniamo il campanello e Colette già ci viene 
incontro sulla porta di casa, abbracciandoci. Mai 
vista una cosa così, senza conoscerci: quanto calore 
e quanta semplicità in questa dottoressa coraggiosa, 
che ha attraversato la guerra, una semi-prigionia 
e un esilio, reinventandosi la ginecologia e 
la psicologia per aiutare centinaia di donne e di 
giovani distrutti dalla guerra nella sua terra martoriata. 
Le chiediamo di dirci la sua storia, parlando 
in italiano che lei conosce perfettamente. 
Comincia a raccontare. 
Sono venuta in Italia a quattordici anni. Qui ho 
fatto le scuole medie, il liceo classico e l’università. 
Sono venuta insieme a una missionaria con l’idea 
di farmi suora. Poi alla fine del liceo mi sono rifiutata 
di fare teologia, perché fin da piccola volevo 
fare medicina. Io e quella suora ci siamo lasciate 
in malo modo, perché lei aveva riposto in me tutte 
le speranze, e io l’ho delusa come potrebbe fare 
un figlio con un genitore. Solo di recente ci siamo 
riconciliate, un momento molto forte e commovente. 
 
Veniamo a oggi. Ha fondato un centro che si 
occupa degli orfani e dei bambini soldato. Come 
è cominciato? 
Quando nel 1988 sono rientrata in Congo dopo 
l’università, nella mia zona i medici erano pochissimi, 
e non esistevano medici donne. Così al mio 
arrivo c’è stata una rivoluzione delle donne che 
non volevano più essere toccate dagli uomini. 
Sebbene la ginecologia non mi piacesse, sono 
stata costretta a praticarla per quasi dieci anni, 
insieme alla pediatria. Sono stati anni molto duri, 
perché le donne delle campagne si presentavano 
da noi solo in condizioni disperate, quando il 
parto in casa era impossibile, e quindi venivano 
praticamente a morire. Così mi ritrovavo da 
sola con i neonati. Li facevo allattare dalle altre 
mamme, a volte venti, trenta mamme per un solo 
bambino, cosa che allora era possibile perché non 
c’era l’Aids. Ma quei bambini occupavano dei letti 
senza pagarli, e così dopo poco ho avuto l’ordine 
dal medico provinciale di mandarli via. Nella mia 
testa pensavo che li avrei potuti rimandare a casa 
dopo lo svezzamento, ma con grande amarezza li 
ho dovuti lasciare andare, e solo pochissimi sono 
sopravvissuti. 
E allora cosa ha fatto? 
Stavo cullando l’idea di trovare una struttura 
alternativa per l’accoglienza quando nel 1996 
è scoppiata la guerra in Congo. Il 29 ottobre la 
città di Bukawu è caduta. L’esercito di Mobuto, 
che non era abituato a combattere, era scappato e 
così siamo stati invasi da soldati ruandesi, ugandesi 
e burundesi che hanno cominciato a uccidere 
tutto ciò che si muoveva. Se sono rimasta viva è 
solo grazie alla Provvidenza, che mi aveva fatto 
ammalare di malaria per cui ero inchiodata a letto. 
Uccisero anche l’arcivescovo, a bruciapelo, mentre 
era con le mani alzate. Non risparmiavano né chie-
se né ospedali. C’erano cadaveri dappertutto. Un 
giorno arrivò da me una donna con una ventina 
di ragazzi dai quindici ai sei anni. Mi disse: dottoressa 
lei voleva fare l’orfanotrofio, ecco gli orfani. 
Sono rimasta con quei ragazzi per un anno, ed è 
stato l’inizio. 
Ma c’era la guerra … 
Infatti. Ho dovuto imparare cose che non avrei mai 
BUDDISMO e SOCIETà numero 130 
Congolese, ha cinquantatré anni ed esercita la professione di medico e psicoterapeuta 
a Bukawu, un paese del Sud Kiwu, ai confini col Ruanda. Si è laureata 
in medicina all’Università Cattolica di Roma e specializzata in Sanità pubblica e 
sviluppo all’Università di Ginevra. Ha studiato anche bioetica, medicina tropicale, 
psicoterapia giovanile e femminile.

Nel 1995 ha fondato il centro "Mater misericordiae", creato inizialmente per accogliere 
neonati orfani e che, dopo lo scoppio della guerra, ha dato ospitalità alle 
vittime del conflitto. Ora il centro, dislocato in tre sedi (Bukawu, Uvira verso la 
frontiera col Burundi e Kamituga, una zona rurale), accoglie in totale 2800 bambini, 
tra orfani ed ex bambini soldato, e donne vittime dello stupro. 
 
pensato di affrontare. Sono stata controllata, interrogata, 
spiata in ogni mio spostamento, soprattutto 
dopo che avevo fatto scappare, insieme al figlio, una 
donna che doveva essere sepolta viva. Per questo ho 
dovuto affrontare anche l’esilio, prima rifugiandomi 
a Nairobi e poi nascondendomi a Kinshasa. 
Ma già dall’inizio, da quando ospitavo quel primo 
gruppo di orfani, i soldati mi giravano continuamente 
attorno, e ogni giorno mi interrogavano perché 
dicevano che nascondevo i nemici. I nemici erano 
i bambini, perché raccontavano come erano stati 
uccisi i loro genitori. La mamma era stata stuprata 
davanti ai loro occhi, al padre erano stati cavati gli 
occhi e tagliata la lingua. I bambini dovevano assistere, 
e se piangevano venivano fucilati. All’inizio 
mi meravigliavo che tutti quei bambini avessero lo 
sguardo fisso a terra e non ti guardassero mai in 
faccia, poi ho capito. 
In seguito sono arrivati anche i bambini soldato 
che erano riusciti a scappare ma che non potevano 
rientrare a casa perché le famiglie erano sorvegliate. 
I primi tempi li tenevamo nascosti nelle nostre 
case, ma era pericolosissimo perché per riprendere 
un bambino erano pronti a fucilare tutti quelli che 
erano in casa. Finalmente, un anno dopo l’Unicef ha 
ottenuto l’autorizzazione a smobilitare i minorenni 
e così abbiamo cominciato ad occuparci ufficialmente 
di loro, nonostante il numero. 
Come si fa a convincere un bambino a diventare 
soldato? 
Dopo la caduta di Bukawu, a novembre del 1996, 
per incoraggiare a formare un esercito autonomo 
Kabila il vecchio ha fatto un appello alla popolazione: 
chi si fosse arruolato avrebbe ricevuto cento 
dollari al mese. Grandi e piccoli si sono precipitati, 
gli insegnanti hanno lasciato il lavoro, i bambini 
sono scappati dalla famiglia, anche se molti di loro 
non hanno mai visto i cento dollari perché sono 
morti nei campi di addestramento. In un secondo 
momento i bambini sono stati rastrellati con la 
forza, sia dall’esercito sia dai partigiani della resistenza. 
Tanti mi chiedono come è possibile che i 
bambini arrivino a prendere le armi, a uccidere, ecc: 
vengono terrorizzati e poi drogati per vincere la 
paura e l’istinto di scappare, devono ubbidire altrimenti 
vengono uccisi. 
C’erano anche bambine soldato? 
Si, erano meno numerose, e molte di loro sono 
morte perché venivano fatte schiave e abusate 
continuamente. Alcune hanno partorito a trediciquattordici 
anni e sembravano delle vecchiette, altre 
sono morte di Aids, altre si sono perse. Per fortuna 
erano poche. 
La cosa più difficile con i ragazzi? 
La più grande difficoltà è stata quella di mettere i 
bambini orfani insieme ai bambini soldato. Anche 
per noi, convivere con questi ragazzi abituati a 
uccidere, a stuprare e a picchiare per ottenere qualsiasi 
cosa era durissimo. Alla fine abbiamo dovuto 
minacciarli di mandarli via. Era il periodo in cui non 
potevano rientrare in famiglia, e così hanno dovuto 
abbassare la testa. 
Nel tempo, lentamente, le cose sono molto cambiate: 
oggi nel centro, per tutti i bambini che ancora 
non abbiamo potuto affidare a nuove famiglie, non 
si fa più distinzione tra orfani e bambini soldato, 
sono cresciuti insieme e si sono ritrovati vittime 
della stessa guerra. Per fortuna anche loro cominciano 
a pensarla così. I più grandi aiutano i più 
BUDDISMO e SOCIETà numero 130 
piccoli e insieme fanno opera di sensibilizzazione 
nei quartieri, nelle scuole, nelle università e mi 
hanno chiesto di incontrarsi con i ragazzi ruandesi 
e burundesi che hanno subito le stesse cose. Stanno 
finalmente acquistando una certa serenità e questo 
dà pace anche a me. 
E le donne? 
Come in tutte le guerre recenti, lo stupro è stato 
usato come un’arma. Questa volta è servito anche 
da arma biologica perché gli strupatori venivano 
selezionato tra i sieropositivi e i malati di Aids. 
Specialmente nelle campagne, dove prima della 
guerra la sieropositività era praticamente nulla, oggi 
ci sono migliaia di persone che muoiono di Aids 
non sanno perché muoiono. Stiamo cercando di fare 
informazione, ma io come medico mi sento in grande 
difficoltà: se dico che è una malattia mi chiedono 
una cura, e io rimango senza parole perché non ho 
medicine. Così mando gli insegnanti nelle scuole e 
nelle famiglie. Inoltre, molte donne si vergognano 
di dire che sono state stuprate perché quelle che lo 
hanno fatto sono state ripudiate, odiate anche dai 
figli e dalla comunità in cui vivevano. 
Comunque adesso anche loro stanno acquistando 
serenità e si stanno organizzando. Alcune hanno 
aperto un ristorante e vendono i loro prodotti. Altre 
usano una macchina da cucire che è stata lasciata 
l’anno scorso da amici occidentali, e chi tra di loro sa 
leggere e scrivere sta insegnando alle altre. 
È stato utile il corso di psicoterapia fatto in Italia? 
Ho dovuto adattare la teoria alla situazione reale. I 
bambini che abbiamo accolto, ma anche le donne, 
non appartenendo alla stessa etnia, avevano usi 
e costumi diversi e ciò rendeva tutto più difficile. 
Perciò, per poterli avvicinare e aiutare, abbiamo 
cercato di risalire alla cultura di ognuno, alle diverse 
lingue e abitudini. Questo metodo ci ha aiutato 
anche a far accettare i bambini orfani alle famiglie, 
quando abbiamo cominciato il reinserimento, ed è 
stato utile anche con le donne stuprate che erano 
state ripudiate. Per esempio, abbiamo cercato di 
individuare, per ogni cultura, quali colpe della 
moglie dessero all’uomo la facoltà di ripudiarla. E lo 
stupro non esiste in nessuna. Dunque bisogna che 
ci sia il perdono, il ritorno della madre in seno alla 
famiglia e nel suo posto dentro la società. Ma anche 
così è difficile, alcuni lo capiscono e altri no. È un 
lavoro lungo. 
Ma per questi bambini che sono stati così violati, 
cosa si riesce a fare? 
Potendo utilizzare tutti gli strumenti, il recupero dei 
bambini è relativamente facile: oltre alla famiglia 
c’è il ruolo della scuola, che è molto importante. I 
bambini hanno una grande capacità di recupero e i 
progressi si vedono. Anche se ripetono una classe, 
è importante che non vengano mandati via, perché 
devono elaborare qualcosa di tremendo ed è un 
processo lungo. Alcuni di loro oggi sono arrivati 
all’università e sono in grado di aiutare i più piccoli 
molto meglio di me, perché hanno vissuto la stessa 
tragedia. 
Secondo lei, cosa c’è dietro una guerra così violenta? 
 
Non c’è dubbio che alla base di questa guerra ci 
siano le ricchezze del sottosulo del Congo. È stata 
defiita la guerra delle miniere e dell’acqua, e si combatte 
tra i signori che governano il mondo, i quali 
dicono di venire ad aiutarci mentre invece vengono 
a combattersi lì. 
Ma quando gli elefanti si battono è l’erba a patire, 
come diciamo noi. La popolazione continua a soffrire. 
Quando sono venuta in Italia per la prima volta 
dopo l’inizio della guerra sentivo i commenti degli 
occidentali: sono le tribù che si uccidono tra di loro. 
Ma quali tribù, in Congo ci sono più di cinquecento 
tribù, non è facile litigare tra cinquecento contendenti! 
Alla base della morte di più di cinque milioni 
di persone ci sono gli interessi economici dei potenti 
della Terra. 
Se potesse ricominciare, rifarebbe le stesse cose? 
Non lo so... forse non mi butterei così come ho fatto. 
Quando da piccola sono venuta in Italia avevo solo 
un grande ideale: diventare medico e lottare contro 
le malattie che uccidevano i bambini. Ma ero una 
persona paurosa, e non so dire quando ho vinto la 
paura. Durante la guerra, vedendo quello che avevano 
subito gli altri e trovandomi a doverli difendere e 
proteggere, non avevo più timore di niente, neanche 
di morire. Rispondevo in faccia ai soldati come nessuno 
faceva, per una mezza parola si veniva fucilati 
e io sono ancora viva. 
BUDDISMO e SOCIETà numero 130 
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c'è anche questo del 2003:
 
Colette Kitoga Habanawema
 
Una dottoressa congolese testimone degli orrori della guerra e impegnata nel curarne le ferite. Il valore del suo lavoro e della sua testimonianza
I martedì dell’Africa
4 febbraio 2003
Colette Kitoga Habanawema, 48 anni, ha scelto di tornare nel suo Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, da dove era partita all’età di 14 anni per venire a studiare nel nostro paese. Ha ottenuto la laurea in Medicina presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e la specializzazione in Sanità pubblica dello sviluppo a Ginevra. Ha compiuto inoltre studi di bioetica, psicoterapia e medicina tropicale.  Nel momento in cui ha dovuto interrogarsi sul suo futuro, a Colette è sembrato inutile fermarsi a lavorare in Italia, dove i medici sono numerosi, mentre il suo paese, il Congo aveva bisogno di tutto. 
Dal 1998 ad oggi la guerra in Congo ha portato – lo ricordiamo – oltre tre milioni di morti, tra le vittime dirette di scontri e massacri e quelle decimate dalla fame e dalle malattie.
Attualmente il centro segue oltre 400 ragazzi, orfani, ex bambini soldato, ragazzi sfruttati nelle attività estrattive in miniera (oro e coltan sono le principali ricchezze della regione e la causa principale della guerra che la affligge), e testimoni pericolosi delle stragi e dei massacri. Essi hanno bisogno di tutto: cure mediche, cibo, vestiario e – soprattutto – assistenza psicologica. Alcuni di loro sono ospitati direttamente nella piccola struttura di Bukavu, sede del centro, mentre molti altri vengono affidati a delle famiglie, alle quali, in cambio, viene garantita l’assistenza sanitaria gratuita. "L’accoglienza, per loro, è un gesto quasi eroico – dice Colette – dato che in media una famiglia a Bukavu ha tra i 5 e i sei figli".
Nell’ambulatorio vengono assistite anche donne e ragazze stuprate e sottoposte a violenze di ogni tipo. Un vero e proprio repertorio degli orrori, di cui le donne sono le prime vittime.
"Quando ci siamo accorti che non riuscivamo a seguire i bisognosi lontani dai centri abitati, ci siamo decisi ad aprire altri due centri più facilmente raggiungibili dalle zone rurali: uno a Uvira, una cittadina ai confini con il Burundi, e l’altro a Kamituga".
Adesso il sogno di Colette, una donna di piccola statura, dagli occhi pieni di dolcezza, con un sorriso disarmante e ricca di una vitalità interiore poco comune, è quello di mandare a scuola i suoi ragazzi. La guerra ha interrotto infatti tutte le attività, comprese quelle dell’istruzione, un diritto già negato a tanti è diventato proibitivo per tutti.
Durante la sua permanenza di qualche mese in Italia la nostra amica ha avuto molti incontri, interviste, ha partecipato a convegni e dibattiti e non è mancato qualche segno di solidarietà concreta, anche senza che lei lo chiedesse. La sua infatti vuole essere principalmente una testimonianza concreta e diretta degli orrori che la guerra produce e lascia sul campo; ferite indelebili che solo l’amore può con pazienza lenire e parzialmente rimarginare. La sua presenza nel nostro paese ha avuto il grande merito di contribuire a far conoscere il dramma di un paese e della sua gente.
Trovandoci a contatto con Colette ci siamo resi conto che non esistono eroi, ma uomini e donne che hanno il coraggio di parlare, di agire e di affrontare la vita senza risparmiarsi, con i problemi, i timori e le insicurezze di tutti.
 
Colette Kitoga ripartirà per il Congo il 9 febbraio Chi volesse mettersi in contatto con lei, anche dopo questa data, può scrivere a :
Paola Luzzi
"Alla fine dell’’87 – racconta lei stessa in un’intervista rilasciata a Segno nel Mondo (nov. 2002) – rientrai in patria. Ma non fu facile reintegrarmi, pur se congolese o zairese di nascita, perchè avevo una cultura europea. Volevo riandarmene, ma non sapevo dove. Poi capii che il Signore mi aveva chiuso tutte le strade perchè voleva che restassi lì; così ho lavorato come responsabile del reparto di ginecologia e ostetricia in un ospedaletto statale, poi in un altro gestito dai missionari protestanti. E’ in questi anni che sono stata colpita dalla realtà dei neonati orfani. La sopravvivenza delle donne incinte è precaria, specie nelle zone rurali, e i loro bimbi, per mancanza di latte, spesso muoiono qualche mese dopo la morte della mamma. Da qui l’idea di fondare il Centro Madre Misericordiae, per bambini da 0 a tre anni. Prima che il progetto si realizzasse, nel 1996, scoppiò quella guerra di cui poco si sa fuori dal paese e che ancora, nella parte est, sta mietendo migliaia di vittime tra la popolazione, con stragi, violenze sessuali e persone sepolte vive. Il Centro cominciò così ad occuparsi delle vittime del conflitto, per l’85% bambini". cocokifr@yahoo.fr oppure a cbuschi@rm.unicatt.it

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