intervista a Colette Kitoga Habanawema
dottoressa e psicoterapeuta, premio Unicef 2006
di Roberto Carvelli
e Marina Marrazzi
Suoniamo il campanello e Colette già ci viene
incontro sulla porta di casa, abbracciandoci. Mai
vista una cosa così, senza conoscerci: quanto calore
e quanta semplicità in questa dottoressa coraggiosa,
che ha attraversato la guerra, una semi-prigionia
e un esilio, reinventandosi la ginecologia e
la psicologia per aiutare centinaia di donne e di
giovani distrutti dalla guerra nella sua terra martoriata.
Le chiediamo di dirci la sua storia, parlando
in italiano che lei conosce perfettamente.
Comincia a raccontare.
Sono venuta in Italia a quattordici anni. Qui ho
fatto le scuole medie, il liceo classico e l’università.
Sono venuta insieme a una missionaria con l’idea
di farmi suora. Poi alla fine del liceo mi sono rifiutata
di fare teologia, perché fin da piccola volevo
fare medicina. Io e quella suora ci siamo lasciate
in malo modo, perché lei aveva riposto in me tutte
le speranze, e io l’ho delusa come potrebbe fare
un figlio con un genitore. Solo di recente ci siamo
riconciliate, un momento molto forte e commovente.
Veniamo a oggi. Ha fondato un centro che si
occupa degli orfani e dei bambini soldato. Come
è cominciato?
Quando nel 1988 sono rientrata in Congo dopo
l’università, nella mia zona i medici erano pochissimi,
e non esistevano medici donne. Così al mio
arrivo c’è stata una rivoluzione delle donne che
non volevano più essere toccate dagli uomini.
Sebbene la ginecologia non mi piacesse, sono
stata costretta a praticarla per quasi dieci anni,
insieme alla pediatria. Sono stati anni molto duri,
perché le donne delle campagne si presentavano
da noi solo in condizioni disperate, quando il
parto in casa era impossibile, e quindi venivano
praticamente a morire. Così mi ritrovavo da
sola con i neonati. Li facevo allattare dalle altre
mamme, a volte venti, trenta mamme per un solo
bambino, cosa che allora era possibile perché non
c’era l’Aids. Ma quei bambini occupavano dei letti
senza pagarli, e così dopo poco ho avuto l’ordine
dal medico provinciale di mandarli via. Nella mia
testa pensavo che li avrei potuti rimandare a casa
dopo lo svezzamento, ma con grande amarezza li
ho dovuti lasciare andare, e solo pochissimi sono
sopravvissuti.
E allora cosa ha fatto?
Stavo cullando l’idea di trovare una struttura
alternativa per l’accoglienza quando nel 1996
è scoppiata la guerra in Congo. Il 29 ottobre la
città di Bukawu è caduta. L’esercito di Mobuto,
che non era abituato a combattere, era scappato e
così siamo stati invasi da soldati ruandesi, ugandesi
e burundesi che hanno cominciato a uccidere
tutto ciò che si muoveva. Se sono rimasta viva è
solo grazie alla Provvidenza, che mi aveva fatto
ammalare di malaria per cui ero inchiodata a letto.
Uccisero anche l’arcivescovo, a bruciapelo, mentre
era con le mani alzate. Non risparmiavano né chie-
se né ospedali. C’erano cadaveri dappertutto. Un
giorno arrivò da me una donna con una ventina
di ragazzi dai quindici ai sei anni. Mi disse: dottoressa
lei voleva fare l’orfanotrofio, ecco gli orfani.
Sono rimasta con quei ragazzi per un anno, ed è
stato l’inizio.
Ma c’era la guerra …
Infatti. Ho dovuto imparare cose che non avrei mai
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Congolese, ha cinquantatré anni ed esercita la professione di medico e psicoterapeuta
a Bukawu, un paese del Sud Kiwu, ai confini col Ruanda. Si è laureata
in medicina all’Università Cattolica di Roma e specializzata in Sanità pubblica e
sviluppo all’Università di Ginevra. Ha studiato anche bioetica, medicina tropicale,
psicoterapia giovanile e femminile.
Nel 1995 ha fondato il centro "Mater misericordiae", creato inizialmente per accogliere
neonati orfani e che, dopo lo scoppio della guerra, ha dato ospitalità alle
vittime del conflitto. Ora il centro, dislocato in tre sedi (Bukawu, Uvira verso la
frontiera col Burundi e Kamituga, una zona rurale), accoglie in totale 2800 bambini,
tra orfani ed ex bambini soldato, e donne vittime dello stupro.
pensato di affrontare. Sono stata controllata, interrogata,
spiata in ogni mio spostamento, soprattutto
dopo che avevo fatto scappare, insieme al figlio, una
donna che doveva essere sepolta viva. Per questo ho
dovuto affrontare anche l’esilio, prima rifugiandomi
a Nairobi e poi nascondendomi a Kinshasa.
Ma già dall’inizio, da quando ospitavo quel primo
gruppo di orfani, i soldati mi giravano continuamente
attorno, e ogni giorno mi interrogavano perché
dicevano che nascondevo i nemici. I nemici erano
i bambini, perché raccontavano come erano stati
uccisi i loro genitori. La mamma era stata stuprata
davanti ai loro occhi, al padre erano stati cavati gli
occhi e tagliata la lingua. I bambini dovevano assistere,
e se piangevano venivano fucilati. All’inizio
mi meravigliavo che tutti quei bambini avessero lo
sguardo fisso a terra e non ti guardassero mai in
faccia, poi ho capito.
In seguito sono arrivati anche i bambini soldato
che erano riusciti a scappare ma che non potevano
rientrare a casa perché le famiglie erano sorvegliate.
I primi tempi li tenevamo nascosti nelle nostre
case, ma era pericolosissimo perché per riprendere
un bambino erano pronti a fucilare tutti quelli che
erano in casa. Finalmente, un anno dopo l’Unicef ha
ottenuto l’autorizzazione a smobilitare i minorenni
e così abbiamo cominciato ad occuparci ufficialmente
di loro, nonostante il numero.
Come si fa a convincere un bambino a diventare
soldato?
Dopo la caduta di Bukawu, a novembre del 1996,
per incoraggiare a formare un esercito autonomo
Kabila il vecchio ha fatto un appello alla popolazione:
chi si fosse arruolato avrebbe ricevuto cento
dollari al mese. Grandi e piccoli si sono precipitati,
gli insegnanti hanno lasciato il lavoro, i bambini
sono scappati dalla famiglia, anche se molti di loro
non hanno mai visto i cento dollari perché sono
morti nei campi di addestramento. In un secondo
momento i bambini sono stati rastrellati con la
forza, sia dall’esercito sia dai partigiani della resistenza.
Tanti mi chiedono come è possibile che i
bambini arrivino a prendere le armi, a uccidere, ecc:
vengono terrorizzati e poi drogati per vincere la
paura e l’istinto di scappare, devono ubbidire altrimenti
vengono uccisi.
C’erano anche bambine soldato?
Si, erano meno numerose, e molte di loro sono
morte perché venivano fatte schiave e abusate
continuamente. Alcune hanno partorito a trediciquattordici
anni e sembravano delle vecchiette, altre
sono morte di Aids, altre si sono perse. Per fortuna
erano poche.
La cosa più difficile con i ragazzi?
La più grande difficoltà è stata quella di mettere i
bambini orfani insieme ai bambini soldato. Anche
per noi, convivere con questi ragazzi abituati a
uccidere, a stuprare e a picchiare per ottenere qualsiasi
cosa era durissimo. Alla fine abbiamo dovuto
minacciarli di mandarli via. Era il periodo in cui non
potevano rientrare in famiglia, e così hanno dovuto
abbassare la testa.
Nel tempo, lentamente, le cose sono molto cambiate:
oggi nel centro, per tutti i bambini che ancora
non abbiamo potuto affidare a nuove famiglie, non
si fa più distinzione tra orfani e bambini soldato,
sono cresciuti insieme e si sono ritrovati vittime
della stessa guerra. Per fortuna anche loro cominciano
a pensarla così. I più grandi aiutano i più
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piccoli e insieme fanno opera di sensibilizzazione
nei quartieri, nelle scuole, nelle università e mi
hanno chiesto di incontrarsi con i ragazzi ruandesi
e burundesi che hanno subito le stesse cose. Stanno
finalmente acquistando una certa serenità e questo
dà pace anche a me.
E le donne?
Come in tutte le guerre recenti, lo stupro è stato
usato come un’arma. Questa volta è servito anche
da arma biologica perché gli strupatori venivano
selezionato tra i sieropositivi e i malati di Aids.
Specialmente nelle campagne, dove prima della
guerra la sieropositività era praticamente nulla, oggi
ci sono migliaia di persone che muoiono di Aids
e
non sanno perché muoiono. Stiamo cercando di fare
informazione, ma io come medico mi sento in grande
difficoltà: se dico che è una malattia mi chiedono
una cura, e io rimango senza parole perché non ho
medicine. Così mando gli insegnanti nelle scuole e
nelle famiglie. Inoltre, molte donne si vergognano
di dire che sono state stuprate perché quelle che lo
hanno fatto sono state ripudiate, odiate anche dai
figli e dalla comunità in cui vivevano.
Comunque adesso anche loro stanno acquistando
serenità e si stanno organizzando. Alcune hanno
aperto un ristorante e vendono i loro prodotti. Altre
usano una macchina da cucire che è stata lasciata
l’anno scorso da amici occidentali, e chi tra di loro sa
leggere e scrivere sta insegnando alle altre.
È stato utile il corso di psicoterapia fatto in Italia?
Ho dovuto adattare la teoria alla situazione reale. I
bambini che abbiamo accolto, ma anche le donne,
non appartenendo alla stessa etnia, avevano usi
e costumi diversi e ciò rendeva tutto più difficile.
Perciò, per poterli avvicinare e aiutare, abbiamo
cercato di risalire alla cultura di ognuno, alle diverse
lingue e abitudini. Questo metodo ci ha aiutato
anche a far accettare i bambini orfani alle famiglie,
quando abbiamo cominciato il reinserimento, ed è
stato utile anche con le donne stuprate che erano
state ripudiate. Per esempio, abbiamo cercato di
individuare, per ogni cultura, quali colpe della
moglie dessero all’uomo la facoltà di ripudiarla. E lo
stupro non esiste in nessuna. Dunque bisogna che
ci sia il perdono, il ritorno della madre in seno alla
famiglia e nel suo posto dentro la società. Ma anche
così è difficile, alcuni lo capiscono e altri no. È un
lavoro lungo.
Ma per questi bambini che sono stati così violati,
cosa si riesce a fare?
Potendo utilizzare tutti gli strumenti, il recupero dei
bambini è relativamente facile: oltre alla famiglia
c’è il ruolo della scuola, che è molto importante. I
bambini hanno una grande capacità di recupero e i
progressi si vedono. Anche se ripetono una classe,
è importante che non vengano mandati via, perché
devono elaborare qualcosa di tremendo ed è un
processo lungo. Alcuni di loro oggi sono arrivati
all’università e sono in grado di aiutare i più piccoli
molto meglio di me, perché hanno vissuto la stessa
tragedia.
Secondo lei, cosa c’è dietro una guerra così violenta?
Non c’è dubbio che alla base di questa guerra ci
siano le ricchezze del sottosulo del Congo. È stata
defiita la guerra delle miniere e dell’acqua, e si combatte
tra i signori che governano il mondo, i quali
dicono di venire ad aiutarci mentre invece vengono
a combattersi lì.
Ma quando gli elefanti si battono è l’erba a patire,
come diciamo noi. La popolazione continua a soffrire.
Quando sono venuta in Italia per la prima volta
dopo l’inizio della guerra sentivo i commenti degli
occidentali: sono le tribù che si uccidono tra di loro.
Ma quali tribù, in Congo ci sono più di cinquecento
tribù, non è facile litigare tra cinquecento contendenti!
Alla base della morte di più di cinque milioni
di persone ci sono gli interessi economici dei potenti
della Terra.
Se potesse ricominciare, rifarebbe le stesse cose?
Non lo so... forse non mi butterei così come ho fatto.
Quando da piccola sono venuta in Italia avevo solo
un grande ideale: diventare medico e lottare contro
le malattie che uccidevano i bambini. Ma ero una
persona paurosa, e non so dire quando ho vinto la
paura. Durante la guerra, vedendo quello che avevano
subito gli altri e trovandomi a doverli difendere e
proteggere, non avevo più timore di niente, neanche
di morire. Rispondevo in faccia ai soldati come nessuno
faceva, per una mezza parola si veniva fucilati
e io sono ancora viva.
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c'è anche questo del 2003:
Colette Kitoga Habanawema
Una dottoressa congolese testimone degli orrori della guerra e impegnata nel curarne le ferite. Il valore del suo lavoro e della sua testimonianza
I martedì dell’Africa
4 febbraio 2003
Colette Kitoga Habanawema, 48 anni, ha scelto di tornare nel suo Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, da dove era partita all’età di 14 anni per venire a studiare nel nostro paese. Ha ottenuto la laurea in Medicina presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e la specializzazione in Sanità pubblica dello sviluppo a Ginevra. Ha compiuto inoltre studi di bioetica, psicoterapia e medicina tropicale. Nel momento in cui ha dovuto interrogarsi sul suo futuro, a Colette è sembrato inutile fermarsi a lavorare in Italia, dove i medici sono numerosi, mentre il suo paese, il Congo aveva bisogno di tutto.
Dal 1998 ad oggi la guerra in Congo ha portato – lo ricordiamo – oltre tre milioni di morti, tra le vittime dirette di scontri e massacri e quelle decimate dalla fame e dalle malattie.
Attualmente il centro segue oltre 400 ragazzi, orfani, ex bambini soldato, ragazzi sfruttati nelle attività estrattive in miniera (oro e coltan sono le principali ricchezze della regione e la causa principale della guerra che la affligge), e testimoni pericolosi delle stragi e dei massacri. Essi hanno bisogno di tutto: cure mediche, cibo, vestiario e – soprattutto – assistenza psicologica. Alcuni di loro sono ospitati direttamente nella piccola struttura di Bukavu, sede del centro, mentre molti altri vengono affidati a delle famiglie, alle quali, in cambio, viene garantita l’assistenza sanitaria gratuita. "L’accoglienza, per loro, è un gesto quasi eroico – dice Colette – dato che in media una famiglia a Bukavu ha tra i 5 e i sei figli".
Nell’ambulatorio vengono assistite anche donne e ragazze stuprate e sottoposte a violenze di ogni tipo. Un vero e proprio repertorio degli orrori, di cui le donne sono le prime vittime.
"Quando ci siamo accorti che non riuscivamo a seguire i bisognosi lontani dai centri abitati, ci siamo decisi ad aprire altri due centri più facilmente raggiungibili dalle zone rurali: uno a Uvira, una cittadina ai confini con il Burundi, e l’altro a Kamituga".
Adesso il sogno di Colette, una donna di piccola statura, dagli occhi pieni di dolcezza, con un sorriso disarmante e ricca di una vitalità interiore poco comune, è quello di mandare a scuola i suoi ragazzi. La guerra ha interrotto infatti tutte le attività, comprese quelle dell’istruzione, un diritto già negato a tanti è diventato proibitivo per tutti.
Durante la sua permanenza di qualche mese in Italia la nostra amica ha avuto molti incontri, interviste, ha partecipato a convegni e dibattiti e non è mancato qualche segno di solidarietà concreta, anche senza che lei lo chiedesse. La sua infatti vuole essere principalmente una testimonianza concreta e diretta degli orrori che la guerra produce e lascia sul campo; ferite indelebili che solo l’amore può con pazienza lenire e parzialmente rimarginare. La sua presenza nel nostro paese ha avuto il grande merito di contribuire a far conoscere il dramma di un paese e della sua gente.
Trovandoci a contatto con Colette ci siamo resi conto che non esistono eroi, ma uomini e donne che hanno il coraggio di parlare, di agire e di affrontare la vita senza risparmiarsi, con i problemi, i timori e le insicurezze di tutti.
Colette Kitoga ripartirà per il Congo il 9 febbraio Chi volesse mettersi in contatto con lei, anche dopo questa data, può scrivere a :
Paola Luzzi "Alla fine dell’’87 – racconta lei stessa in un’intervista rilasciata a Segno nel Mondo (nov. 2002) – rientrai in patria. Ma non fu facile reintegrarmi, pur se congolese o zairese di nascita, perchè avevo una cultura europea. Volevo riandarmene, ma non sapevo dove. Poi capii che il Signore mi aveva chiuso tutte le strade perchè voleva che restassi lì; così ho lavorato come responsabile del reparto di ginecologia e ostetricia in un ospedaletto statale, poi in un altro gestito dai missionari protestanti. E’ in questi anni che sono stata colpita dalla realtà dei neonati orfani. La sopravvivenza delle donne incinte è precaria, specie nelle zone rurali, e i loro bimbi, per mancanza di latte, spesso muoiono qualche mese dopo la morte della mamma. Da qui l’idea di fondare il Centro Madre Misericordiae, per bambini da 0 a tre anni. Prima che il progetto si realizzasse, nel 1996, scoppiò quella guerra di cui poco si sa fuori dal paese e che ancora, nella parte est, sta mietendo migliaia di vittime tra la popolazione, con stragi, violenze sessuali e persone sepolte vive. Il Centro cominciò così ad occuparsi delle vittime del conflitto, per l’85% bambini". cocokifr@yahoo.fr oppure a cbuschi@rm.unicatt.it
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